lunedì 5 marzo 2012

parlami ancora

era la fine di un’estate e le nuvole passavano veloci.
non ero felice a quel tempo e spesso passeggiavo sulla spiaggia.

sei comparso all’improvviso, con la tua macchina fotografica in un mattino di pioggia, eri solo e distante. bellissimo.
tutti i giorni ti incrociavo. tu fotografavi il cielo, gli ombrelloni i legni portati gli sdrai le cabine, forse gli uccelli.
io ti guardavo da lontano.
mi sedevo all’inizio del pontile e ti guardavo da lontano.

tante volte avrei voluto gridarti, avrei voluto urlare:
cazzo girati, che è quello il mare!
ma il grido non usciva e restava lì, intorno a me, però guardarti lavorare mi calmava. mi calmavano i tuoi gesti lenti e pazienti. a tratti malinconici. immagino precisi.

c’erano le volte in cui pensavo ti fossi accorto di me.
puntavi la macchina nella mia direzione o almeno così mi pareva.
e io ti lasciavo fare.
ho sempre lasciato fare.
non sorridevo.
non ne ero capace in quegli anni e continuavo a fissarti come se l’obiettivo potesse parlarti di me.
e magari lo faceva.

nei giorni, in quei giorni, il grido si è trasformato in parola, poi in sussurro e poi in sospiro.
alla fine … in niente.

hanno fatto il tuo nome un giorno al bar, un nome facile da ricordare ma che non mi ricordava  niente.
solo dopo molti anni, per caso e in francia, ho trovato una tua foto esposta in una galleria.
era la foto di un cielo. sono entrata, l’ho pagata e  l’ho portata qui.
in camera e l’ho messa a testa in giù.