«Oggi in tasca ho il potere chiaro».
«Io in tasca non ho mai niente».
Da anni parlare con Daniele è
diventato un gioco di equilibrismo, sempre in bilico tra follia e realtà. Con lui
sono cresciuta, è il mio vicino di casa.
Da bambini trascorrevamo le
giornate in garage, lui a montare e smontare i giocattoli, io a passargli gli
attrezzi. Pensavo sarebbe diventato un meccanico aerospaziale. Il suo
giocattolo preferito era uno zeppelin di latta a cui si staccava continuamente
una ruota. Quel giocattolo piaceva tanto anche a me, dai finestrini si vedevano
gli uomini dell’equipaggio e io sognavo di farne parte. Poi Daniele si trasferì
in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Anni dopo seppi che era stato
male, che stava ancora male, non usciva più, aveva abbandonato gli studi, era seguito
dal Centro di Igiene Mentale.
Non so esattamente cosa accada
a certe vite, non c’è una ragione quando la testa smette di funzionare. Certo, le
cause si trovano nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, negli insegnanti
severi, nei traslochi, in una madre apprensiva, in un padre che se ne è andato.
Forse nell’uso di sostanze stupefacenti. Di stupefacente per conto mio, c’è
solo il fatto che Daniele prima c’era, ora non più.
Lui e la madre sono tornati a
vivere nella vecchia casa qui accanto, ma non è rimasto niente del ragazzino
timido e goffo che conoscevo da bambina; un omone di un quintale e mezzo, alto
due metri e un po’ curvo, se lo è ingoiato. Nemmeno lo sguardo è più il suo.
Suonano alla porta.
«Ciao Daniele».
«Devo farti vedere una cosa,
vieni!»
Lo seguo titubante, non so mai
come comportarmi con lui. Non dice una parola, visto da dietro è veramente
grosso, enorme. Ha una camminata scoordinata ma veloce, fatico a stargli
dietro. Arriviamo davanti a casa, entriamo dal garage, accende la luce:
spettacolo!
Una bicicletta, anzi un tandem
dipinto d’oro, collegato a una struttura fatta di tubi e eliche e serbatoi di
varie dimensioni, regge un dirigibile dorato, grande, grandissimo, lungo come
tutto il tandem. Guardo Daniele incredula.
«Buon anniversario Fantini»,
dice.
«Anniversario?»
«Non te lo ricordi? Oggi è il
nostro fidanzamento d’oro. Sono cinquant’anni che siamo fidanzati io e te».
Mi torna tutto in mente, il
primo giorno di primavera del ’68. Eravamo piccoli, ero andata a giocare da lui
e poi mi ero fermata a cena.
«Cosa vuoi fare da grande?» mi
chiese sua madre, mentre friggeva i totani.
«La scrittrice e tu?» domandai
rivolgendomi a Daniele.
«Sposarti!»
Ci fidanzammo quella sera
stessa con anelli di calamari fritti e Barbie e Ken a farci da testimoni.
«Sì, ora me lo ricordo» dico
con le lacrime agli occhi.
«Non piangere e spingi
piuttosto. Portiamolo fuori».
«Ma non passerà dal portone».
«Sì che passerà, ho preso le
misure, dobbiamo solo sgonfiare le ruote».
Sgonfiamo, spingiamo e passa,
a stento, ma passa. Quel coso alla luce del sole è ancora più bello, sprigiona bagliori
e riflessi: un grande sigaro d’oro sospeso tra il cielo e la terra.
Daniele armeggia intorno,
rigonfia le gomme, sistema le eliche, controlla i serbatoi, monta in sella,
mentre io rimango incantata a guardare.
«Dai Fantini, vieni su e
pedala!».
«Questo affare vola?», chiedo
preoccupata.
«Ma sei fuori di testa? Non lo
vedi che è una bicicletta?» risponde lui, con gli occhi sbarrati.
Allora salgo anch’io, alzo il
viso e sotto alla pancia del dirigibile, con una calligrafia che riconosco c’è
scritto:
buon
anniversario scrittrice!
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